Cultura

Il canto delle filandere: Mama mia mi sun stufa

Le filandere un racconto e una testimonianza

Eravamo in tante. Le più tante persone erano tutte quelle che lavoravano in bacinella.
Prima di incominciare il lavoro l’acqua nella bacinella bolliva, no? Allora si prendeva… c’era una specie di cesta con dei bozzoli…
Dovevamo mettere in testa il foulard perché se no ci scottavamo tutte, ci bagnavamo e lì si andava avanti sempre così.

( testimonianza di una filandera di Landriano (PV) nel video Vita in filanda: una storia di donne.)

le filandere il baco da setall filo della seta è prodotto dal baco, piccola larva bianca di una falena, che durante la sua breve esistenza si nutre continuamente ed esclusivamente di foglie di gelso. La sua vita è suddivisa in quattro mute, durante le quali la larva cresce notevolmente e cambia dimensione e colore assumendo, nella fase finale, un tono giallastro: è a questo stadio che il baco si posiziona in mezzo a rametti secchi di ginestra o pioppo, preparati all’occorrenza dagli allevatori e comincia a produrre un filamento sottile e resistente che lo avvolge creando il bozzolo, una sorta di contenitore nel quale completerà la sua trasformazione diventando falena. Raramente questi bachi terminano il loro sviluppo, perché l’insetto, una volta adulto, dovrebbe rompere il bozzolo nel quale è rinchiuso per uscire all’aperto, e in questo modo renderebbe inutilizzabile il filo di seta. Quindi è necessario estrarre il filo dal bozzolo prima che l’insetto lo rompa.
Nelle filande del nord Italia, fino alla metà del secolo scorso, le donne svolgevano proprio queste mansioni. Il loro lavoro consisteva nel muovere continuamente con le mani nude e con l’aiuto di scopini di saggina, un certo numero di bozzoli, precedentemente essiccati nei forni, in una bacinella piena di acqua caldissima. Il movimento produceva la fuoriuscita di filamenti sottilissimi che si aggregavano in modo da formare un unico filo, che veniva posizionato poi nell’aspo (o aspa), una macchina che lo avvolgeva formando una matassa. I fili dovevano poi essere scrupolosamente controllati dalle donne perché non ci fosse la minima imperfezione.

In filanda lavoravano anche bambine e ragazzine, che fornivano alle filandere un certo numero di bozzoli per le bacinelle e dovevano poi raccogliere continuamente i residui che venivano gettati a terra.
Il lavoro delle filandere era sottoposto a controlli severissimi e quotidiani, cioè:
il cal e il poch, che fornivano il risultato dei controlli sulla quantità del lavoro, che doveva corrispondere a parametri precisi.
la filandail pruvìn, che stabiliva invece le caratteristiche del filato, cioè la qualità del lavoro della filandera.
Se il risultato finale non era all’altezza delle aspettative, veniva applicata una sospensione che andava da due a otto giorni, a seconda della mancanza rilevata. Oppure veniva decurtata la paga.
Invece se per un po’ di tempo tutto era andato secondo le richieste, la filandera poteva aspirare anche a un aumento significativo del compenso.

Il lavoro delle donne delle filande, come tanti altri lavori di quell’epoca, era estremamente faticoso, pagato pochissimo e dannoso per la salute.

Non avevamo niente, la sera io andavo a casa e andavo in un piccolo pollaio a cambiarmi, a lasciare là le cose tutta la notte perché non mi volevano vicino. Puzzavo sempre. Ma forte, era.

Le filandere lavoravano in grandi capannoni dove il tasso di umidità era elevatissimo, in un ambiente afoso, perché le finestre dovevano rimanere sempre chiuse per evitare che l’aria scompigliasse il filo di seta negli aspi e per mantenere l’umidità necessaria alla filatura della seta. Le loro mani erano rovinate dalla permanenza per ore nell’acqua a 70/80 gradi, temperatura necessaria per poter estrarre il filo dai bozzoli. A tutto questo si aggiungevano le frequenti molestie e abusi sessuali da parte dei padroni.

Durante il lavoro, alle donne non era permesso chiacchierare né parlare, ma potevano cantare, perché, secondo i padroni, cantando le donne lavoravano con maggiore energia e concentrazione. Il canto aveva anche la funzione di creare unione tra le donne e di alleviare la fatica del lavoro.

“Si cantava, prendevamo delle canzoni e sempre con quel tono della canzone mettevamo le parole noi, le parole del lavoro, della filanda”.

Il canto che vi proponiamo è una testimonianza di quella vita: Mama mia mi sun stufa, di autore anonimo, pubblicato per la prima volta nel 1940 nella raccolta di Giacomo Bollini e Attilio Frescura “I canti della filanda”, vecchie canzoni delle filandere brianzole. Lo potete ascoltare qui di seguito nella versione di Anna Identici, cantante italiana che si è dedicata per molto tempo alla ricerca e all’interpretazione di canti popolari italiani.

e qui nella versione di Sandra Mantovani, cantante e etnomusicologa, che collaborò con le sue ricerche alla rivista Nuovo Canzoniere Italiano, fondata negli anni Sessanta da Roberto Leydi e Gianni Bosio.

Testo della canzone

Mama mia, mi sun stufa
o de fà la filerina:
ol cal e ol poch a la matina,
ol pruvìn do voeult al dì.

Mama mia, mi sun stufa
tutt ol dì a fà andà l’aspa;
voglio andare in Bergamasca,
in Bergamasca a lavorar.

El mesté de la filanda
l’è el mesté degli assassini;
poverette quelle figlie
che son dentro a lavorar.

Siam trattati come cani,
come cani alla catena;
non è questa la maniera
o di farci lavorar.

Tucc me disen che sun nera,
e l’è el fumm de la caldera
il mio amor me lo diceva
de fa no stu brutt mesté.

Tùcc me disen che sun gialda,
l’è ol filur de la filanda,
quando poi sarò in campagna
miei color ritornerà.

Mamma mia, io sono stufa
di fare la filandina:
il cal e il poch la mattina
e il provino due volte al giorno.

Mamma mia, io sono stufa
tutto il giorno far andare l’aspo;
voglio andare nella bergamasca,
nella bergamasca a lavorare.

Il mestiere della filanda
è il mestiere degli assassini;
poverette quelle ragazze
che ci sono a lavorare.

Siamo trattati come cani,
come cani alla catena;
non è questa la maniera
di farci lavorare.

Tutti mi dicono che sono nera,
è il fumo della caldaia;
il mio amore me lo diceva
di non fare quel brutto mestiere.

Tutti mi dicono che sono gialla,
è il vapore della filanda;
quando poi sarò in campagna
i miei colori torneranno.


Leggi anche l’articolo: Il mistero del canto delle donne Ainu

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