Le tabacchine del salento: fimmine fimmine un canto di protesta
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Le tabacchine del salento un racconto che parla di storia e di tradizione
Andavamo in campagna con il sole e ci seccava tutta la pelle. Quando ho conosciuto a lui, lui non mi voleva a me, perché diceva che ero molto brutta, mi era cotta tutta la facce, con le bolle in facce. Stavamo sempre con il fazzoletto in testa e allora per il sole ci veniva proprio come una maschera.
(Testimonianza tratta da Memorie della terra
racconti e canti di lavoro e di lotta del Salento, a cura di Vincenzo Santoro).
In Salento, terra che veniva descritta come un luogo arretrato, lontano da ogni possibile sviluppo industriale e dove superstizione e oscurantismo la facevano da padroni, nei primi anni del ‘900 la coltivazione del tabacco rappresentava una fonte di sostentamento molto importante per le famiglie dei contadini. Il lavoro di raccolta delle foglie del tabacco era svolto soprattutto dalle donne, che trascorrevano molto tempo nei campi in estate sotto il sole cocente. Spesso lavoravano anche i bambini.
Oltre alla fatica che questo lavoro comportava, le donne erano spesso costrette a subire violenze fisiche e psicologiche.
Il lavoro delle tabacchine del salento era strettamente legato al fenomeno del tarantismo, una forma di isteria che nella tradizione popolare era la conseguenza del morso di un ragno, la taranta, che si annidava nei campi.
L’effetto del morso causava spesso nelle donne un malessere generale, depressione, dolori e forme di delirio, che sfociavano in atteggiamenti di nevrosi e perdita di controllo.
La “cura” tradizionale consisteva in una sorta di esorcismo musicale: venivano convocati alcuni musici che inducevano nella donna colpita dal morso uno stato di trance che degenerava in una danza frenetica. Spesso la “tarantata” si abbigliava con i colori che caratterizzavano il ragno da cui era stata pizzicata, oppure le venivano offerti nastri gialli o rossi, a seconda del colore del ragno. La danza poteva durare giorni, fino a che la donna non veniva liberata dal male da cui era posseduta.
Per far crepare o schiattare la taranta occorreva soprattutto mimare la danza del piccolo ragno, cioè la tarantella. Occorreva cioè danzare col ragno, essere anzi lo stesso ragno che danza, secondo un’irresistibile identificazione.
(Ernesto De Martino- La terra del rimorso)
In realtà con questi comportamenti le donne sfogavano la loro rabbia per una condizione di vita che le obbligava costantemente all’emarginazione e alla solitudine.
La chiesa tentò di cristianizzare il fenomeno, istituendo un santo protettore, San Paolo di Galatina, nell’omonimo luogo di culto, dove le donne andavano in pellegrinaggio per bere e lavarsi alla fonte benedetta, pensando di liberarsi in questo modo dalla condizione di “tarantate”.
Spesso però accadevano episodi poco edificanti, in cui le donne si lasciavano andare a comportamenti osceni che non potevano essere tollerati e quindi, con il tempo, la chiesa venne sconsacrata e il pozzo della purificazione chiuso.
Fimmene fimmene è il canto di denuncia delle difficili condizioni di vita delle tabacchine del Salento, della violenza e dello sfruttamento.
Testo della canzone
Fimmene fimmene ca sciati allu tabaccu
ne sciati doi e ne turnati quattru.
Ci bu la tice cu chiantati lu tabaccu
lu sule è forte e te lu sicca tuttu.
Fimmene fimmene ca sciati a vindimiare
e sutta lu ceppune bu la faciti fare.
E Santu Paulu miu de Galatina
fammende ccuntetà sta signurina.
E Santu Paulu miu de le tarante
pizzechi le caruse a mmienzu all’anche.
E Santu Paulu miu de li scurzuni
pizzechi li carusi alli cujuni.
Donne donne che andate al tabacco
andate in due e tornate in quattro.
Chi vi dice di piantare il tabacco
il sole è forte e lo secca tutto.
Donne donne che andate a vendemmiare
e sotto la vigna ve la fate fare.
San Paolo mio di Galatina
fai la grazia a questa signorina.
San Paolo mio delle tarante
pizzichi le ragazze in mezzo alle gambe.
San Paolo mio dei serpenti
pizzichi i maschi fra i coglioni.
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