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Perchè la scuola uccide la creatività?

“Fuori di Testa” perché la scuola uccide la creatività

scuola-canto-didattica

Autore: di Ken Robinson  (Autore), C. Calovi (Traduttore)
Editore:
‎ Erickson (5 novembre 2015)
Lingua: ‎ Italiano
Copertina flessibile: ‎ 278 pagine

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“Insegnare a usare la creatività implica porre domande aperte alle quali possono esserci molteplici risposte; lavorare in gruppo; usare l’immaginazione per esplorare possibilità[…] Se non si è pronti a sbagliare, difficilmente si riuscirà ad inventare qualcosa di originale.”
Ken Robinson

Verso la metà dell’ultimo anno di scuola media, iniziava ad essere urgente la scelta di quale sarebbe dovuto essere il mio percorso di studi per la scuola superiore.
Come per tutti i ragazzini, iniziavano le varie giornate di Open day degli istituti superiori.
Giornate organizzate spesso dagli studenti stessi della scuola, che ti portavano in giro per la struttura e ti illustravano ambienti, aule, laboratori facendo ben attenzione ad accattivare la tua attenzione su quelli che erano gli elementi di spicco della scuola.
Ricordo di aver partecipato a quasi tutti gli Open day delle scuole più vicino casa: dai licei scientifici, con indirizzo umanistico o linguistico agli istituti professionali, istituti tecnici e chi più ne ha più ne metta.
Andavo bene a scuola, non avevo nessuna materia che non mi interessasse, avevo preferenze per alcuni ambiti ma solo perché trovavo alcuni professori più interessanti di altri.
Non per questo denigravo le altre materie che non avevano la giusta “gloria” nell’essere insegnate, secondo il mio gusto personale.
Ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi hanno cresciuta con forte senso di responsabilità verso ogni mia azione, hanno sempre valorizzato il “mio” pensiero e la mia libera capacità di giudizio. Questo non vuol dire che non mi consigliassero cosa fare, ma che nel modo di farlo, semplicemente, non mi condizionavano a tal punto da cambiare la mia opinione.
E così per me la scelta di quale doveva essere il mio “destino” scolastico si faceva sempre più difficile.

Non riuscivo a scegliere!

Se la scuola che visitavo era una struttura vecchia, la cosa mi affascinava liberando la mia immaginazione nella storicità di tutte le persone che avevano trascorso gli studi li.
Se la struttura era di recente costruzione e sfavillava di attrezzature moderne, ne restavo incantata dall’idea di come avrei potuto imparare a prendere confidenza con la tecnologia.

Così era un bel guaio.

Non che mi andasse bene tutto, ma semplicemente nelle brochure di tutte le scuole che visitavo, leggevo le materie che si affrontavano e quante ore alla settimana venivano destinate per ognuna.
Dati che per me non riuscivano a fare una grande differenza, considerando che la maggior parte delle materie elencate erano nuove e mai studiate in precedenza.
Passarono i mesi e riuscii a scremare a due scelte (non chiedetemi come, qualche esclusione fu influenzata dai pochi autobus giornalieri che erano a disposizione per raggiungere la scuola).
All’ultimo giorno utile per la consegna del modulo di iscrizione, mi presentai con entrambi i moduli compilati: Liceo socio-psico pedagogico e Istituto tecnico industriale statale.

Gli antipodi.

 

 

Il primo valorizzava gli studi umanistici e il secondo metteva in risalto la tecnologia e i processi pratici.
Arrivai alla cattedra con entrambi i moduli posti a ventaglio e chiesi alla professoressa di italiano di sceglierne uno.
Purtroppo non ero nelle sue simpatie ( diverse volte ero stata accusata di essere irriverente nei suoi confronti, solo perché un giorno risposi a tono, durante una lezione dove giudicava i dialetti meridionali come ignoranti. Ma questa è un’altra storia)
Nel bistrattare la mia proposta di scegliere agitò le mani, facendomene cadere uno per terra.
Così consegnai l’unico rimasto tra le mie mani.
E’ così che sono diventata un Perito tecnico informatico.
Non ho mai creduto che la mia, fosse stata una scelta stupida o infantile, semplicemente era una scelta e ne ero contenta.
Nel mio percorso di studi ho incontrato un paio di professori che mi hanno letteralmente “formato” non solo nella materia, ma nel mio modo di pensare, persone con il quale, anche ad oggi ho un rapporto, un legame di stima e affetto.
Una di questi è stata la mia professoressa del primo e secondo anno di matematica.
Ricordo che alla fine di ogni lezione di matematica mi portavo a casa la passione con il quale spiegava, nonostante le difficoltà di approcciarsi ad una classe numerosa e molto svogliata.
Attraverso formule e numeri riusciva a farmi riflettere ponendomi domande non sempre consone alla matematica ma che si generavano a seguito delle sue spiegazioni.
Aveva nel suo modo di fare didattica gli elementi necessari per arrivare a catturare l’essenza della formazione.
Era creativa e disponibile, e spesso fuori l’orario scolastico dava ascolto al mio pensiero, suggerendomi libri o raccontandomi aneddoti della sua vita.

 

didattica

 

Questo faceva in modo di riuscire a portarmi a casa ottimi risultati.
Al terzo anno, come spesso accade, cambiai gran parte dei professori e indovinate un po’? La matematica divenne un incubo, non solo per la complessità degli argomenti nuovi ma perché non vedevo più il luccichio che mi aveva attratto.
Compresi sulla mia pelle quali sono gli elementi fondamentali nel fare didattica: le persone.
Questo libro spiega l’essenza del concetto di creatività.
Di quanto ogni individuo abbia in se un potenziale da educare.
Ciò che ci viene insegnato e il modo in cui viene insegnato deve attivare le giuste energie, l’immaginazione. Non si può fare in modo che una persona apprenda contro la sua volontà.
Si parla di come spesso si confonda la creatività, con il concetto errato di “esuberanza” o “emotività”.
Di come sia necessaria la creatività nella vita quotidiana, come svilupparla, come strutturarla e come trovarla.
Ne fa una analisi ben articolata, di come nella storia i contesti di più fattori abbiano influenzato il mondo intero, compreso il sistema scolastico.
Analizza quei luoghi comuni che tutt’ora tendono a dividere i due mondi di arte e scienza, il perché tutt’ora spesso si consideri l’artista come un “anarchico emozionale” e un matematico come un “entità di intelligenza superiore”.
Di come spesso si dica “Non studiare musica: non ti guadagnerai mai da vivere come musicista” e del perché non si dica “Non studiare scienze: non diventerai mai uno scienziato”.
E’ un libro che affonda radici nell’analisi storiografica di cultura e dei processi, nella tecnologia e nell’importanza della condivisione e del falso mito del “genio solitario”.
Ken Robinson ne fa una riflessione chiara, scorrevole alla lettura e ricca di una bibliografia di ben 5 pagine (scritte a carattere piccolo, sottolineo).
E’ un libro illuminante che credo debba essere nella libreria di ognuno di noi, ma soprattutto di chi si occupa di didattica perché ha a che fare con la creatività degli altri e, se nell’ambito musicale, a maggior ragione.
Se negli open day scolastici invece che farmi leggere brochure di materie e visitare i laboratori nuovi mi avessero presentato i professori (le persone al quale era affidata la mia formazione) non avrei avuto dubbi nella scelta.


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