In questo articolo abbiamo l’occasione di incontrare il punto di vista di un grande riferimento musicale, chitarristico, compositivo e vocale della musica italiana e non solo; ho avuto modo di raccogliere in questa intervista la preziosa ed interessante esperienza di Finaz: chitarrista e nuova voce della Bandabardò e di molti altri progetti e collaborazioni di respiro internazionale.
Elisa Pezzuto:
Innanzitutto grazie per il tuo tempo e la tua grande disponibilità! Mi piacerebbe partire dalla tua esperienza di vita in termini musicali, che è molto interessante, ampia e ricca di attività diverse tra loro. Ad esempio, unitamente alla tua nota e lunga carriera chitarristica, hai avuto numerose esperienze come autore ed in ambito vocale nel contesto di progetti nazionali ed internazionali; puoi parlarci della tua esperienza e della tua visione rispetto alle richieste, alle difficoltà e alle differenze che possono esserci in un’attività performativa legata a questi vari contesti?
Ho avuto la fortuna di lavorare in molti contesti musicali, attraversando periodi storici molto differenti tra di loro. Sono cresciuto negli anni 70, ma con l’occhio rivolto a ciò che era successo negli anni precedenti (sono un superfan dei Beatles da che ho memoria). Adolescente negli 80 e professionista dagli anni 90.
Di acqua ne è passata sotto i ponti e vivere tutti questi cambiamenti ha forgiato sicuramente la mia idea di musica, e, sopratutto di fare musica. Essere chitarrista , compositore e produttore venti o trenta anni fa non era certo la stessa cosa di oggi. Le cose che ti venivano richieste all’epoca non sono esattamente le stesse di oggi.
Inoltre sono cresciuto con la musica underground (quella vera, non la Indy come la chiamano oggi che di indipendente non ha niente!) dove c’era un circuito nazionale e internazionale aperto. Ho potuto collaborare e condividere esperienze con artisti di tutto il mondo: esisteva una comunità musicale aperta e contaminata.
La difficoltà dell’epoca era che… se non sapevi cantare, se non sapevi suonare e non avevi una proposta che si staccava da tutto il resto, non avevi ragione di esistere o di andare avanti. Oggi le richieste sono tutte al contrario: se sai cantare benissimo non metti in moto l’autotune e quindi “perdi” quel sound che oggi spadroneggia e che omologa tutte le produzioni di successo.
Cioè, meglio se stoni !!! Se poi “non assomigli” a qualcosa che già esiste, non hai ragione di essere. Scusate la franchezza, ma è proprio così. Ora non voglio disegnare un quadro apocalittico, anche perché sia nella mia attività con la Bandabardò, sia come insegnante universitario della West-Scotland University, sia come chitarrista per altri musicisti, sia come ruolo di frontman cantante che mi è scoppiato tra le mani ultimamente, ho notato che anche tra i più giovani, se riusciamo a farli “incontrare” con una performance vera (faccio presente che oggi i grandi live con biglietti super costosi per l’80% sono tutti in playback!!!), riescono a subire la magia dell’artista che usa la voce, lo strumento, la performance nella sua totalità come qualcosa di superiore. Riesci a cogliere lo stupore e la meraviglia che li coglie anche un pò impreparati.
Quindi rispondendo alla domanda, la difficoltà oggi di affrontare i vari contesti della strumentalità, della vocalità, della scrittura e della produzione, sta proprio nel saper cogliere la differenza del fare musica “alla vecchia” e saperla mediare con il cambiamento di gusto del mondo contemporaneo. Il tutto però senza snaturare quello che è il tuo “messaggio”: per me l’essenziale è sempre stato far uscire quello che ho dire sia che suoni, canti ecc l’espressione della personalità è sempre stato il mio pallino.
Anche perché seguire la moda ti impone di scomparire appena quella moda scompare. Seguire il tuo estro, la tua visione del mondo non passerà mai di moda, perché ognuno di noi è unico ed irripetibile, quindi non seriale, quindi non “modaiolo”.
Recentemente ti sei trovato ad essere chiamato a rivestire un nuovo ruolo nel progetto della Bandabardò; questa nuova veste vocale, in una dimensione in cui storicamente hai avuto un’espressione strumentale, che riflessioni ti ha portato ad aprire? Cosa ti richiede in termini espressivi, comunicativi e compositivi? Nella relazione con il pubblico cosa senti che possa essere eventualmente cambiato? Nella tua vita, cosa ti porta a ricercare?
Questa nuova prospettiva mi apre nuovi scenari che mai avrei pensato di affrontare, soprattutto alla mia età, adesso. E questo è – invero – molto stimolante. Ho sempre cantato in tutti i progetti in cui ho partecipato. Ma quasi sempre come backing vocal, dove era richiesta una voce INTONATA, decisa, e soprattutto neutra, al fine di mescolarsi bene con la voce principale. Così è stato con la voce di Erriquez, di Gazzè, di Pelù, di Paola Turci e con tutti gli innumerevoli artisti con cui ho avuto la gioia di lavorare.
Quando però vieni “promosso” a prima voce, le cose cambiano. La voce diventa lo strumento principale con cui identificare un progetto, con cui comunicare un testo, veicolare un messaggio… ecco che spunta quello che dicevo nella risposta precedente. L’originalità, la personalità, la riconoscibilità del suono di uno strumento o di una voce o del sound stesso nella sua interezza, è ciò che io ritengo fondamentale. Trovare la propria “voce” in questo senso non è facile, ma ritengo tuttavia essere il nodo focale del fare arte nel vero senso del termine.
La composizione ovviamente va di conseguenza. Scrivere per la voce di Erriquez, o Dolcenera ecc richiede la capacità di capire le potenzialità espressive e la personalità dell’artista con cui devi interagire. Scrivere per te stesso impone una ricerca più profonda, più introspettiva. Chi sono? Cosa voglio dire al mio pubblico? Quali sono gli espedienti tecnici e artistici di cui mi posso avvalere affinché la canzone possa suscitare interesse usando la mia voce? Questo soprattutto se sei un curioso come me, sempre alla ricerca di nuove forme di espressione, di fusione tra vecchio e nuovo cercando di generare qualcosa che però rimanga pur sempre “tuo”.
Inoltre la scrittura ha anche a che fare con la tua maturità, con la tua età. Come Vasco non scrive più di sballi e vite spericolate, anche per me, per la mia generazione, parlare di coscienza civile, responsabilità sociale e politica e così via, deve assumere un tono più “consono” alle esperienze vissute in tempi moderni. Frullare il tutto insieme per ottenere una voce credibile, non semplicemente nostalgica o naive o fuori dal tempo e quindi indecifrabile.
Come definiresti lo strumento voce dal punto di vista del musicista e del compositore?
E’ lo strumento più importante. Come dicevo prima è il veicolo che rappresenta la “faccia” del progetto, che sia una band, un solista o altro. Anche il più difficile da gestire, in tutti i sensi. E’ uno strumento delicato. Non tutti i giorni sei sempre allo stesso standard, ci sono i malesseri stagionali, la raucedine, il reflusso, il singhiozzo… migliaia di sfighe che possono minare la tua performance live e in studio. E’ uno strumento delicato nel senso che è lo strumento con più sfumature al mondo. Una stessa sillaba la puoi interpretare in una infinità di modi diversi.
Con uno strumento puoi avere molte nuances, molte sfumature, ma la voce te ne permette di infinite. Questa è una benedizione da una parte perché la tua creatività ed espressività raggiunge livelli incredibili, però spesso anche la troppa scelta crea imbarazzi e, a volte, anche il pericolo di scegliere la via interpretativa sbagliata. Capire come interpretare al meglio un brano è estremamente impegnativo e difficoltoso.
Puoi parlarci delle differenze che percepisci nel lavoro dell’interprete vocale e nel lavoro del cantautore?
Cantare brani di altre persone (nel caso di una cover ad esempio) è una sfida interessante. Innanzitutto sicuramente se hai scelto di cantarlo è perché e un brano che ami. Quindi ti piace ciò che stai facendo. La sfida sta tutta nel rendere tua l’interpretazione e rispettare allo stesso tempo le intenzioni dell’autore. Però sei esposto al giudizio in modo evidente: la versione “ufficiale” è sempre lì pronta a smontarti. Se è un brano inedito, la sfida risulta meno sfiancante perché comunque non si hanno pietre di paragone, quindi si può seguire la propria musa.
Nel caso di brani che hai scritto tu, le paranoie sono a mille… mentre lo canti in studio, a brano già finito, cambi continuamente… esigi che si registrino di nuovo delle parti… cerchi di migliorarlo fino all’ultimo… e anche quando sarà pubblicato avresti da ridire… questo quadro allucinante è solo frutto della cura maniacale che metto nelle mie produzioni. In fin dei conti le canzoni sono come figli, quindi, come non curarli e seguirli fino a che ci è data la possibilità? Poi diventano maggiorenni e vivranno di vita propria, anche se vorresti continuare a metter bocca e interferire 😉 😉 😉
Quali suggerimenti ti sentiresti di dare a chi oggi ha desiderio di dedicarsi al lavoro del musicista, dell’interprete? Insomma ad una carriera musicale che possa essere di valore?
Non posso fare altro che ripetere quello che ho anticipato nella prima risposta. Essere artista significa vivere in modo bifronte: conoscere e guardare il passato perché i grandi maestri hanno tutto da insegnare; allo stesso tempo guardare il futuro per capire come poter creare qualcosa di originale, personale. Io sono un grande sostenitore dello studio: Studiare non significa solo far crescere la tecnica, ma far crescere la propria vita. Se vuoi dire qualcosa di originale devi diventare una persona originale, con un proprio modo di vedere le cose, e quindi poi di raccontarle.
Essere artisti significa saper raccontare il presente in modo mai banale e omologato. Mi fanno ridere i testi che usano le parole trendy, che vanno di moda in questo momento, mi sembra un atteggiamento puerile e da leccaculo. De André passava anche settimane nello scegliere una parola. La potenza della parola, del suo suono, dello spazio sacro che apre, della riflessione, della emozione… niente è paragonabile. L’universo pare sia stato creato con il suono di una parola: si pensi all’OM induista o al Verbo del Vangelo di San Giovanni.
Come la si dice, come la si canta, come la si intona… creiamo universi, continuamente. Perché appiattire il tutto con un linguaggio da supermercato, da tecnico del computer, o addirittura annullarne il suono con un plug in che addirizza la stonatura e toglie profondità alla voce, alla parola?
Mi viene sempre in mente il brano Anima fragile di Vasco quando canta “tutte quelle cose che ci univano”… c’è quel microtono di stonatura che vale il brano quasi: in quel momento senti che ti si rivoltano le budella dalla bellezza della imperfezione. Geniale aver lasciato quella interpretazione, sa di vero, sa di vivo. Pensate alla stonatura del basso nel bridge di Space Oddity di Bowie. Oggi avremmo addirizzato tutto con Pro tools… che tristezza.
Ora non sono del tutto contrario all’autotune, può essere un bel mezzo tecnico per esprimere qualcosa, ma se tutti continuamente lo usano in modo esagerato… riuscite a percepire la differenza tra un artista e un altro? Riuscite a percepire quanta profondità, le dimensioni che si perdono nella espressività, nel suono? Spero che quanto detto non risulti solo lo sfogo di un signore di mezza età che (come da cliché) ripete il mantra che ai suoi tempi era tutto meglio e ora fa tutto schifo.
Vorrei solo invitare alla riflessione che esistono molteplici piani nel mondo dell’arte e che relegarsi a uno soltanto senza esplorare il resto è castrante e stupido (oltre che toglierti il vero gusto della vita). Vari studi stanno dimostrando che la musica scolpisce il nostro cervello (leggetevi il libro How music sculpts our brain di Isabelle Peretz), è l’unica forma d’arte che crea nuove connessioni neuronali. Se la stimolazione è omologante, la connessione sarà omologante, se la stimolazione è multiformativa, così il nostro cervello lavorerà e si organizzerà in modo brillante e originale.
La conclusione è che si deve lavorare su se stessi, stare con le antenne aperte, ricercare e amare tutta la musica, dal canto gregoriano alla musica concreta, passando per il blues, il rock e il pop, la trap e quant’altro. Sir Paul McCartney, all’apice della sua carriera con i Beatles, si confrontava con i Beach Boys e i Rolling Stones (suoi coevi), ma frequentava Luciano Berio e Stockhausen, per aprire la sua forma di espressione ed apprender nuovi linguaggi. Lo stesso faceva anche il maestro Battiato con cui ho avuto l’onore di lavorare. Due esempi di artisti che hanno lasciato un segno indelebile di energia, arte, pienezza di messaggio… immortalità della musica.
Trovare la propria voce (strumentale, vocale, compositiva) richiede sforzo, sacrificio e soprattutto mai arrendersi allo spirito commerciale che da soddisfazione immediata ma non durata nel tempo, non coerenza…
Conosci te stesso c’era scritto sul tempio dell’oracolo di Delfi. Il più grande insegnamento, o, almeno, uno dei più importanti. E’ una impresa titanica, ma ne vale la pena.
Grazie ancora per queste riflessioni stimolanti e per aver condiviso con noi la tua profonda e lunga esperienza performativa così ampia ed eterogenea.